“Volevo essere una star, non una mascotte da galleria”. Così si definiva Jean-Michel Basquiat, icona dell’arte contemporanea e della scena culturale newyorkese degli anni Ottanta, le cui creazioni sono esposte fino al 2 luglio a Roma, al Chiostro del Bramante.
Dopo il successo al MUDEC di Milano, si possono ammirare anche nella Capitale 100 opere – olî, serigrafie, disegni, acrilici e ceramiche realizzati da Basquiat tra il 1981 e il 1987 – provenienti dalla Mugrabi Collection, una delle più importanti raccolte d’arte contemporanea a livello internazionale.
La mostra, curata da Gianni Mercurio in collaborazione con Mirella Panepinto, racconta il percorso del geniale e tormentato artista, scomparso nel 1988, a soli 27 anni, e il difficile processo di costruzione della sua identità, tra fragilità, isolamento e ambizione.
Partendo dal “primo periodo” della sua produzione (1981/1982), si assiste, seguendo un filo cronologico, ad una profonda evoluzione della sua poetica. Superata, infatti, la fase degli anni Settanta in cui, con lo pseudonimo “SAMO”, diffonde i suoi graffiti e la sua “misteriosa” poesia di strada sui muri della città, Basquiat inizia a forgiare un nuovo linguaggio artistico che lo rende in breve tempo un simbolo del fervore culturale di New York e la nuova stella del neoespressionismo. Nelle opere di questo periodo sono raffigurati volti-maschera, figure scheletriche, immagini del suo repertorio di graffitista e parole fissate sulla tela come “pennellate” che sembrano “proteste sincopate, dichiarazioni esistenziali”. È di questi anni la sua prima mostra personale organizzata proprio in Italia, a Modena nel 1981, in cui il suo linguaggio pittorico subisce una svolta significativa.
Utilizzando, infatti, stili, tecniche e materiali differenti, Basquiat delinea una nuova visione artistica in cui confluiscono l’intreccio di culture “primordiali, spiritualistiche, tecnologiche e consumistiche” ed alcuni elementi espressivi del background, colto e popolare, contemporaneo, tra cui la danza, il teatro, lo sport, la musica jazz, la letteratura, le scienze e i fumetti. Tutto questo è pervaso da un forte senso di appartenenza alla cultura afroamericana, che sfocia nella difesa dei valori di questa comunità e in un’importante presa di coscienza politica, definendo una forma d’“arte del presente” ispirata all’arte delle origini del popolo nero. Secondo Gianni Mercurio, Basquiat, inoltre, usa personaggi e oggetti “familiari” che, tuttavia, non appartengono al mondo dei bianchi, ma, evitando di tracciare “una linea di demarcazione netta”, dimostra quanto sia forte “la contaminazione” tra il mondo dei bianchi e quello dei neri.
Tra le opere esposte si ritrovano anche le ceramiche del 1983 e 1984 che ritraggono artisti di tutte le epoche, da Michelangelo ad Andy Warhol, e la serie “Anatomy” del 1982 in cui sono raffigurati “compulsivamente” parti del corpo umano e frammenti ossei che sembrano “galleggiare su un fondo oscuro” insieme alle parole. Una passione che deriva dalla lettura del testo medico “Gray’s Anatomy”, regalatogli dalla madre nel 1968 dopo un incidente. Questo interesse non “rivela solo una preoccupazione per i vari aspetti della condizione umana […], ma anche un voler andare all’essenza e scavare alle radici”, in linea con “la ricerca delle proprie mitiche origini nere.” Particolare attenzione è dedicata, infine, alla serie delle “Collaborations” (1984-1985) tra Basquiat e Andy Warhol (la prima serie vede anche la partecipazione di Francesco Clemente), nate da un’idea del gallerista Bruno Bischofberger.
Una sinergia considerata da molti critici “una strategia deliberata di mercato dai risultati mediocri”, ma che, in realtà, rivitalizza l’opera di Warhol che da anni non dipingeva più, regalando a Basquiat una straordinaria esperienza umana e professionale. Per Keith Haring “i quadri nati dalla loro collaborazione sono un genuino prodotto di quella che William Burroughs chiama la Terza Mente: due menti eccezionali che si fondono per crearne una terza, totalmente distinta e inimitabile.”
Dopo una decade di successi, purtroppo, Basquiat non riesce a salvarsi. “Il randagio di Brooklyn divenuto ormai Re”, sottolinea Mercurio, “si illudeva di poter controllare il proprio lavoro, ma era in realtà dipendente da quel sistema che rapidamente lo aveva creato e che, altrettanto rapidamente, avrebbe potuto farlo svanire. Nel corso di tutta la sua esistenza, infatti, lottò contro lo spettro della droga, la solitudine, la paura di non essere più famoso.” Restano le sue opere, capaci ancora di suscitare ammirazione dopo quasi 30 anni, e la sua famosa firma – la corona a 3 punte – in cui Clemente vede un “triplice lignaggio reale: di poeta, di musicista e campione di boxe.”
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