domenica 11 dicembre 2016

PITTURA GIAPPONESE

La grande onda di Kanagawa

Quella forma elegante in blu di Prussia che si leva e s’inarca al di sopra delle sottili imbarcazioni al largo della costa di Kanagawa è probabilmente l’onda più famosa al mondo. Katsushika Hokusai, che nacque, visse e morì a Edo, l’attuale Tokyo, tra il 1760 e il 1849, la realizzò insieme ad altre 35 xilografie policrome per la serie delle Trentasei vedute del monte Fuji, negli anni che vanno dal 1826 al 1833. L’edizione ebbe un tale consenso popolare che l’autore dovette aggiungere, certamente con piacere, altri dieci soggetti.
Il successo dei  46 lavori di Hokusai dipese, fra numerosi altri, da due fattori soprattutto. Il primo spetta di diritto all’amore del popolo giapponese per il Sacro Monte Fuji, sentimento avvertito in uguale misura dai due culti principali, shintoista e buddista, ma, credo, anche da chi non crede. 

Quel mostro bellissimo, quieto e silenzioso da ormai tre secoli, è il simbolo del forte legame di un popolo tanto concreto quanto animista alla sua terra. Lassù abitano divinità, per la maggior parte femminili, che regolano le forze generatrici della natura e sono guardiane della porta dell’aldilà, che è il cratere stesso del vulcano. Altrettanto popolare, altrettanto amata, è la Storia di un tagliabambù (Taketori monogatari), scritta nel decimo secolo, in cui si racconta che Kaguya-hime, la piccola trovata all’interno del bambù dal tagliatore Okina e da lui cresciuta come una figlia, una volta diventata donna e rivelatasi una dea proveniente dalla Luna, prima di farvi ritorno lascia sulla cima del monte Fuji una goccia di elisir dell’immortalità come dono all’imperatore, del quale ha respinto i favori.

l'onda di hokusai
Katsushika Hokusai – Sotto l’onda di Kanagawa (1829/1833)
Il secondo motivo era di natura economica perché il metodo xilografico noto come Ukiyo-e, in sostanza un disegno inciso sopra una tavoletta di legno da usare come matrice, inchiostrata e poi premuta su carta o su tessuto, permetteva di produrre un ampio numero di stampe abbassandone notevolmente i costi. Era una tecnica nata apposta per portare l’arte nelle case di chi non poteva permettersi dei veri dipinti.
La Grande Onda è l’opera di Hokusai che più di tutte ha fatto breccia nel gusto occidentale. È infatti la meno carica d’iconografie nipponiche tradizionali, rispetto alle sue compagne di edizione, nelle quali sono rappresentate scene di vita quotidiana, figurine in kimono, il pesco, il ciliegio, il ginco biloba, i laghetti e i ponticelli di legno a forma di arco, case con i tetti a pagoda, templi, villaggi; insomma, il Giappone.
Nell’opera della Grande Onda di Kanagawa non c’è niente di tutto questo e anche il Sacro Monte Fuji sulla linea dell’orizzonte sembra  fare parte dell’oceano; ha le stesse cromie e la sua forma conica regolare, le sue pendici innevate, potrebbero dare la sensazione di un’onda che si è già infranta e la cui schiuma scende veloce lungo i fianchi, un istante prima di svanire.
Le imbarcazioni dalle linee filanti e i loro equipaggi, quelle testine calve che spuntano al di sopra degli scafi, ci riconducono un po’ più vicino al mondo del Sol Levante.
La grande onda, bella e malvagia, alle estremità della cui spuma sembra che tante manine munite d’artigli siano pronte a ghermire i marinai, quell’onda alta, anomala rispetto alle compagne, ha una dinamica in sincrono con la nuvola nel cielo. Tant’è che quella nube parrebbe quasi una sagoma, vorrei dire un’ombra, se non fosse così chiara, proiettata dall’onda stessa sopra lo sfondo ocra giallo.
La nube è un elemento necessario nella composizione, è una forma armonizzatrice che entra nello spazio dell’opera per  bilanciare i pesi,  ma è indubbio che contribuisca ad aumentare la sensazione di dramma incombente, di minaccia. Mare e vento quindi, due forze della natura alleate contro quei piccoli uomini coraggiosi che hanno osato sfidarla.

tsunami

Credo che l’onda di Hokusai si possa definire tsunami, il cui significato letterale è “onda contro il porto”.  Lo suggerisce la proporzione tra la stessa e gli uomini. Finché, dicono gli esperti, un’onda si mantiene entro i due metri e mezzo d’altezza, tutto fila abbastanza liscio; quando supera i quattro metri  può diventare devastante, soprattutto una volta raggiunta la riva.
Katsushika Hokusai lo sa bene. In riva all’oceano ci è nato e vissuto per quasi novant’anni. Bisogna conoscere quella parte di mondo per poterla rappresentare. Non è un’onda interna, proveniente dal Mar del Giappone; la costa di Kanagawa è ad Est dell’isola di Honshu, sull’Oceano Pacifico. Non c’è più niente davanti, se non le sparute isole Izu.
Impossibile non notare, subito sotto le scritte, a che altezza  Hokusai ha dipinto in blu scuro e in azzurro la massa d’acqua che sta spingendo quell’onda, la quale, a occhio e croce, sembrerebbe innalzarsi con una certa abbondanza oltre i sette metri. Ecco che, vista sotto questa luce, l’immagine del pittore di Edo, tanto amata da impressionisti e post impressionisti, ma più vicina al Liberty che ai Nabis, senza perdere un solo grammo di fascino, fa già un altro effetto.
Hiroshi era un raffinato interprete della realtà.
L’immagine, né c’era da dubitarne, è corretta anche per l’orientamento geografico. Il golfo di Kanagawa è a nord est del monte Fuji, perciò le barche che puntano verso l’oceano aperto, oltre l’isoletta di Oshima, il cui vulcano è ancora attivo, hanno il Monte Sacro alla loro destra. La Grande Onda, di conseguenza, viaggia verso il piccolo villaggio di Yokohama, oltre il quale si trova la baia di Edo.
Osservando le imbarcazioni, la prima impressione che ne traggo è che sia in corso una gara.
Per la verità non c’è uno straccio di letteratura riguardante la Grande Onda che sia d’accordo con questa mia visione. Qua è là se ne fa cenno come a barche di pescatori, niente di più. E che possa trattarsi di pescherecci è quanto di più probabile; a tutt’oggi le gare di voga d’antica tradizione si fanno con barche da lavoro, o che sembrano tali quantomeno nell’aspetto esteriore.
Per fare un esempio, senza allontanarsi troppo dal luogo geografico dell’opera, pare che una volta all’anno ad Okinawa si svolga una gara su pesanti barconi a remi in occasione della festa del dio del mare.
C’informa la nostra Annalisa di Meo, che è una nippofila appassionata: “All’inizio di maggio si tengono le regate di barche a forma di drago, soprattutto a Itoman e Naha. Tradizione secolare di origine cinese, queste gare, chiamate 
hari, rivestono una funzione propiziatoria per le famiglie dei pescatori.” (guida Lonley Planet) Se oggi una manifestazione di quel genere è principalmente un’occasione per divertire il pubblico, le festività religiose nell’età Edo, legate alla necessità di propiziarsi gli dei marini del pantheon shintoista, erano una cosa seria. Nell’800 di Hokusai lo shintoismo aveva già iniziato a fondersi con il confucianesimo assorbendone le dottrine morali, volte al bene delle comunità più che a quello dei singoli.
onda+oceano

L’oceano era la più grande risorsa per le popolazioni costiere, ma gli dei che lo governavano erano bizzosi.
Primo fra tutti Susanoo, nato dal fiato di Izanagi. Susanoo aveva una sorella, Amaterasu, alla quale il padre aveva affidato il dominio del cielo e del sole, ma non della luna, che andò all’altra sorella, Tsukyomi. Di tutte le divinità shintoiste Amaterasu è, oggi come allora, la dea più conosciuta, più amata e più venerata. Izanagi, che da buon padre creatore ci teneva a fare le cose per bene e a dividere equamente il mondo fra i suoi tre figli, tenendo anche nel dovuto conto le loro indoli, aveva affidato a Susanoo, già dio del vento, il dominio del mare. Per compensare, donò a Tsukyomi il regno degli inferi.

Susanoo non era cattivo; talvolta sapeva anche essere generoso, ma era un caratteriale, irascibile, dispettoso, geloso e forse anche un po’ invidioso, soprattutto nei confronti della potente e amata Amaterasu, che per quanto gli volesse bene, una volta giunse ad un tale punto di saturazione che andò a nascondersi in fondo ad una grotta, nel regno di Tsukyomi, lasciando il mondo nell’oscurità per molti giorni.
Susanoo era fatto così: un dio umorale, un mood swinger, capace di passare all’improvviso dalla bonaccia alla tempesta. Aveva alle sue dipendenze soggetti strani e poco raccomandabili. Tra questi c’era Awabi, un demone marino che spesso e volentieri frequentava le coste di Nanao, sulla sponda occidentale dell’isola di Honshu. Aveva la mania di divorare i marinai che affogavano, sicché quando un corpo non veniva più restituito dal mare, era evidente che se lo fosse mangiato Awabi.
In sintesi: erano tanti i motivi che gli uomini avevano di propiziarsi le divinità dell’oceano.

Detto questo, però, ciò che più mi convince a credere che si tratti d’una gara è un insieme di particolari eloquenti, come l’allineamento parallelo delle tre imbarcazioni, i tre piani di distanza tra loro, l’identica direzione delle prue, il numero di componenti per equipaggio, la sincronizzazione di movimenti dei vogatori, l’ordine perfetto delle loro posizioni che è il risultato di allenamento e disciplina agonistica, l’uso rigoroso di una stessa divisa, qui necessariamente blu per una precisa scelta di dominante cromatica.

E poi c’è qualcosa di più, che va oltre la leggerezza degli scafi vuoti d’attrezzature da lavoro, l’assenza di alberi, sia pure senza vele, le linee dinamiche e snelle.
Per esempio, le pettinature: quegli uomini sono tutti rasati sakayaki, vale a dire solo sulla parte davanti.

La rasatura sakayaki era usata dai samurai per mettere il kabuto, cioè l’elmo, senza patire il caldo durante i combattimenti. All’epoca delle” vedute” di Hokusai, tarda età Edo, quando i samurai erano ormai una casta più di rappresentanza che d’intervento, pare che quel genere d’acconciatura fosse ancora molto di moda tra i civili, evidentemente considerata elegante. Troppo, per degli umili pescatori.

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