sabato 11 febbraio 2017

L’ Urlo di Edvard Munch tra grande arte e angoscia

L’urlo, o anche Il grido, è un celebre dipinto di Edvard Munch (titolo originale in norvegese: Skrik). Realizzato nel 1893 su cartone con olio, tempera e pastello, come per altre opere del pittore espressionista è stato dipinto in più versioni, quattro in totale. In alcune composizioni poetiche l’interprete dell’espressionismo nietzschiano racconta l’origine del celeberrimo dipinto: una passeggiata con amici portò in evidenza il dolore atroce di ogni segmento di vita di fronte alla natura matrigna. E quel volto
contorto che deforma il mondo con un suono deflagrante conferma la posizione dell’uomo senza Dio: un’immensa sofferenza che diventa grido di
sconfitta al cospetto del nulla, del nulla che avvolge, che torce le forme, che comprime la psiche dell’uomo, trasformando il suo volto, comprimendo il teschio fino ad evidenziarlo drammaticamente sulla pelle. Munch cerca di frapporre tra il nulla e sè, le proprie mani, come se il silenzio immane di una natura matrigna penetrasse insopportabilmente negli orecchi.
Munch scrisse e dipinse L’urlo. 
Fu aggredito da voci, atterrito da colori che si rompevano nella mente: e li raccontò con le parole, prima di affidarsi alla tela. In trenta righe, tra poesia e prosa – le ritroviamo nel volume Edvard Munch, Frammenti sull’arte, Abscondita, 154 pagine, 19 euro -, registra l’attacco profono.
Scrive: “Una sera camminavo / lungo un viottolo in collina / nei pressi di Kristiania / con due compagni. Era / il periodo in cui la vita / aveva ridotto a brandelli / la mia anima. / Il sole calava, si era / immerso fiammeggiando / sotto l’orizzonte. / Sembrava / una spada infuocata / di sangue che tagliasse / la volta celeste. / Il cielo era di / sangue sezionato / in strisce di fuoco, / le pareti rocciose infondevano / un blu profondo / al fiordo scolorandolo / in azzurro freddo, giallo e / rosso. / Esplodeva / il rosso sanguinante lungo / il sentiero e il corrimano, / mentre i miei amici assumevano / un pallore luminescente. / Ho avvertito / un grande urlo, / ho udito, / realmente, un grande / urlo, i colori della / natura mandavano in pezzi / le sue linee, / le linee e i colori / risuonavano vibrando, / queste oscillazioni della vita / non solo costringevano / i miei occhi a oscillare, / ma imprimevano altrettante / oscillazioni alle orecchie, / perché io realmente ho udito / quell’urlo – e poi ho dipinto / il quadro L’urlo”.
 La stessa scena fu descritta da Munch anche con alcune righe scritte sul diario , mentre era malato a Nizza, nell’Ospedale di San Caterina di Osvaldo:
« Camminavo lungo la strada con due amici quando il sole tramontò, il cielo si tinse all’improvviso di rosso sangue. Mi fermai, mi appoggiai stanco morto ad una palizzata. Sul fiordo nero-azzurro e sulla città c’erano sangue e lingue di fuoco. I miei amici continuavano a camminare e io tremavo ancora di paura… e sentivo che un grande urlo infinito pervadeva la natura”.
La narrazione è in parte shakespeariana e in parte da prefazione all’Inferno dantesco, il confronto è con le visioni dei martiri, con le apparizioni dei beati. Del resto, Edvard Munch (1863-1944) appartiene alla schiera sterminata dei martiri e dei beati della follia, ipotizzando per un’estrema ragione della speranza che la follia sia una forma di santità e divenga, in ogni secolo, uno strumento d’arte.
Ispirazione purissima e soffertissima e molto condivisa nella storia della pittura, al punto di pensare che si debba frequentare il pianeta della follia e del patimento per esprimere, più che la bellezza, un’estetica del pensiero da conservare come memoria e patrimonio. Di nuovo, si conferma l’aiuto di Munch allorché indica l’appartenenza a un destino comune, alla condivisione di un lembo del sudario.
Munch nasce coi nervi fragili, con morti vicine, malattie che lo rendono orfano. Gli rimane l’eredità di un’arte anch’essa da possedere nell’angoscia. E si tiene l’esclusiva dell’uomo di cultura, del vero uomo di cultura, il quale si convince a espiare, solitariamente e rumorosamente, la sua stessa solitudine. L’urlo rompe l’accerchiamento e diminuisce lo spavento del nemico.
Solo, Edvard Munch, riporta l’indignazione con la propria terra, malata di distrazione nei suoi confronti. E’ un’altra particella di urlo. Sentite: “Un giovane pittore tedesco, Macke, caduto in guerra, mi ha scritto: ‘Noi ti portiamo avanti sulle nostre spalle’. Qui in Norvegia nessuno mi porta sulle sue spalle. Mi stritolano tra scudi”. Fotocopiate questa sorta di ballata di Munch e donatela ad un artista bravo, vicino di casa. Vedrete, sarà sollevato, convinto di non essere sotto il tiro del mondo. Si rasserenerà. Almeno per qualche giorno, prima di tornare a credere che i suoi non lo porteranno avanti sulle loro spalle.
Appena dopo, in un’altra “ballata”, Munch prende in prestito il destino amaro di Raffaello: a differenza di Hogarth, che dipingendo immoralità “è morto serenamente in seno alla famiglia”, Raffaello, “il pittore della beltà e della purezza, morì di sifilide (così riteneva Munch, ma questo particolare non corrisponde alla realtà, ndr)… L’artista è un giglio gettato”. Forse all’artista puro è riservata una sorte più crudele?
Di Edvard Munch, tra i molti frammenti esistenziali oscurati, va segnalata la relazione con Mathilde Tulla Larsen, bella e viziata, padrona di una vita più che libera e ricca. Lei, innamoratissima, lui abbastanza stanco di una storia che gli accresceva la psiconevrosi.
Un bel giorno, Tulla, per poter recuperare l’amore di Edvard, diede incarico di annunciare la propria morte, si fece trovare composta in una bara e quando lo vide si alzò trionfante: “Sapevo che saresti venuto”, disse.
A quel punto saltò fuori un revolver e partì uno sparo. Diverse le versioni. I nervi di Munch si ritrassero ulteriormente così come l’orgoglio, abbattuto pure dalla relazione di Tulla con un pittore impressionista.
Un pittore che sentiva il mondo – e l’arte – come una realtà serenamente agli antipodi rispetto al Nostro. La rabbia gli procurerà la forza creativa per la creazione di un portfolio litografico intitolato Alpha e Omega. Le descrizioni poetiche che accompagnano le diciotto litografie, legate alle concezioni di Kierkegaard, Schopenhauer e Nietzsche, ironizzano sul rapporto tra i sessi e alleggeriscono la pressione di Tulla sul cuore e soprattutto sul cervello dell’artista norvegese.


Perchè Munch urla, nel dipinto, assumendo in sé la funzione d’immagine specchiante della civiltà occidentale? Il suo grido di dolore non è quello che si conosceva, fino a quel momento, nell’arte. Statue e dipinti rappresentavano il grido della Madonna di fronte a Cristo morto, la disperazione e l’urlo dei Giganti travolti dalle pietre dell’Olimpo (Giulio Romano, Palazzo Te), il dolore fisico delle anime dell’inferno. Il dolore era suscitato da un evento ben preciso. L’urlo di Munch è invece suscitato da nulla e dal Nulla. 
E’ il grido dell’uomo moderno che la filosofia positivista e il darwinismo hanno collocato in una dimensione puramente materiale, biologica, animale, destinato all’oscurità di una morte senza consolazione. Il panico si sviluppa pertanto non per una causa di dolore diretta, tangibile, ma per il perdersi d’ogni Senso dell’esistenza, per secoli dominata da una precisa idea del trascendente. L’uomo ridotto a una solitudine senza conforto viene schiacciato dal peso di un mondo deformato, all’interno del quale egli non conta più nulla. 
Ogni reazione positiva pare impossibile poichè la vita appare come una semplice condanna. Resta la disperazione esistenziale. Se in precedenza il pensiero negativo di Schopenauer trovava, nell’arte la pace, inglobata nella contemplazione estetica del nulla stesso – come avvenne in Leopardi – ora nemmeno l’arte è motivo di ordinata consolazione. Kafka asseconda, con l’estetica dell’espressione caricata, l’orrore e l’opera non svolge alcuna azione consolatoria, ma scava nella disperazione stessa, fino a emanare in direzione dello spettatore una luce apocalittica, quella dei bagliori sinistri che avvolgono il nero profondo del Nulla.
Negli anni successivi alla realizzazione dell”Urlo,  Kafka portava ai vertici della letteratura novecentesca quel nichilismo, quella morte di Dio, quell’assurdo che spingono un’umanità senza una guida in labirinti, in castelli d’incubo, in processi incomprensibili; ciò che manca è la figura del Padre buono  –  che è Dio -, del quale è rimasto solo un gigantesco calco. Cioè la presenza costante di un’assenza, causata da un vuoto incolmabile, da un’orfanità senza consolazione.
Sotto il profilo medico, si può rilevare una stretta connessione tra l’Urlo di Munch e un forte attacco di panico, con ansia, giramenti di testa, dolore e senso di vuoto e di angoscia avvertito nella regione toracica, fotofobia, deformazione della realtà, amplificazione insopportabile di ogni rumore. Alcuni pazienti che soffrono di attacchi di panico e di ansia affermano che il sole basso all’orizzonte, il cielo striato di arancione e il contrasto con zone cromaticamente fredde – come il mare del fiordo o la pianura che imbrunisce – provocano un senso acuto di malinconia, che si trasforma in quel senso di  vuoto e caduta che precede il caos e il malore.

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