Se la limitata esistenza di Amedeo Modigliani (Livorno 1884 - Parigi 1920) è iscritta in un’aura di leggenda, lo si deve innanzitutto alla sua ostentata figura di bohémien (bello e dannato) nella Parigi degli artisti, tra Montmartre e Montparnasse, nei primi decenni del Novecento.
Si aggiunga poi alla sua precoce scomparsa per malattia (a soli trentasei anni), quella della sua
giovanissima compagna ventiduenne, Jeanne Hébouterne, che troncò la sua vita il giorno seguente la morte di lui, mentre era in attesa del secondo figlio, al nono mese di gravidanza, dopo soli tre anni dalla loro felice unione. Storia toccante, dalla quale fu tratto anche un bellissimo film, nel 1958, Montparnasse 19, interpretato magistralmente da due grandi attori francesi, Gérard Philipe ed Anouk Aimée.
Nei quattordici anni che Modigliani trascorse a Parigi, dal 1906 al 1920, si racchiude tutta la sua attività pittorica2 (con una parentesi dedicata alla scultura); si tratta di quasi tutti i ritratti (salvo pochi paesaggi, tre o quattro, dipinti a Cagnes, nel sud della Francia), immediatamente riconoscibili, anche da chi non è troppo esperto di pittura moderna. Dunque Modigliani in pochi anni è divenuto un “classico”. Vediamo perché.
Intanto la formazione culturale del giovane Modigliani non poteva non risentire del clima estetizzante e dannunziano degli inizi del secolo, che gli faceva esprimere ancora diciassettenne, pensieri molto alati scritti in alcune lettere, nel 1901 all’amico pittore Oscar Ghiglia: “Abbi il culto sacro (io lo dico per te … e per me), per tutto ciò che può esaltare ed eccitare la tua intelligenza al suo massimo potere creatore […] per affermarsi sempre e abbattere tutto quello che è di vecchio e di putrido restato…”3.
Alla base quindi della sua passione artistica, vi è un forte desiderio di mutamento, un’intima necessità per superare quanto sino ad allora aveva appreso scolasticamente nello studio del pittore postmacchiaiolo Guglielmo Micheli, a suo volta allievo di Giovanni Fattori. Ma Modigliani, nelle lettere inviate al Ghiglia, mostra già una vera e propria febbrile ansia di ricerca: “L’efficacia e la necessità dello stile si presenta appunto in questo, che oltre ad essere l’unico vocabolario atto ad estrinsecare un’idea, la distacca dall’individuo che l’ha prodotta, lascia via aperta a ciò che non si può e non si deve dire”4.
Queste riflessioni giovanili dell’artista livornese preludono alla sua maturità che avverrà più tardi a Parigi nel clima delle avanguardie; tuttavia trovano la loro fermentazione nel suo peregrinare, per motivi di salute (il tifo gli aveva procurato lesioni polmonari che saranno per lui fatali), nel sud dell’Italia, nel clima caldo di Napoli, Capri, Amalfi, per poi risalire verso Roma, Firenze e Venezia, dove si imbeve di cultura classica. Secondo Jeanne Modigliani, la figlia dell’artista che nel 1958 traccia una biografia del padre, edulcorata dagli episodi romanzati narrati dagli stessi amici dell’artista (v. ad es. André Salmon. La vie passionnée de Modigliani, Parigi 1957), non poca deve essere stata l’influenza che egli deve aver subito dallo studio sull’opera dello scultore gotico senese, Tino da Camaino (1280c.-1337), sostenendo quanto già aveva evidenziato lo studioso Enzo Carli nel 19525.
Difatti, scrive la figlia Jeanne: “è a Napoli, visitata prima di Firenze, che […] egli ha potuto meglio apprezzare l’originalità di Tino […].
In Santa Chiara, in San Domenico e in Santa Maria Donnaregina, il giovane Dedo si è trovato di fronte alla soluzione felice e grandiosa di problemi plastici che saranno suoi durante tutta la sua breve attività artistica: l’impostazione obliqua dei volti sui colli cilindrici…”6.
Sempre secondo Jeanne, quindi, si sviluppa precocemente, e in Italia, la sua vocazione di scultore nel 1902, e non a Parigi nel 1908, “come afferma la più gran parte dei critici”7. Modigliani, perciò, assorbe ogni esperienza voracemente e in fretta, tanto da scrivere al Ghiglia: “io sono ricco e fecondo di germi ormai e ho bisogno dell’opera”8.
Ricorderà al riguardo lo scultore Jaques Lipchitz (1891-1973), suo grande amico, (v. Ritratto di Lipchtiz e sua moglie, 1916, Chicago, Art Institut) nel testo che dedica a Modigliani: “Il travaillait avec acharnement, esquissant dessin sur dessin sans s’arrêter pour corriger ou réfléchir. Il si fiait, semblait-il, uniquement à son instinct…un instinct d’une finesse et d’une sensibilité extrême, en vertu peut-être de son héritage italien et de son amour pour les maîtres du début de la Reinassaince ”9.
E deve essere proprio per questo “acharnement”, questo furore creativo ad indurlo a confidare più volte all’amico Lipchitz che egli desiderava “una vita breve ma intensa”10. Il destino, sfortunatamente, lo accontenterà, assecondando il suo comportamento autodistruttivo, per l’indifferenza nella cura dei suoi mali, per l’abuso dell’alcol, la dipendenza dalle droghe che aveva iniziato ad assumere mentre si trovava a Venezia (ci ricorda ancora la figlia Jeanne) per seguire i corsi all’Istituto di Belle Arti. Il clima di Parigi, poi, non farà che esasperare queste sue tendenze, forse anche un po’ esibizioniste, recitando, da vero artista, quella parte irruente della sua personalità, con la quale affascinava amici ed era motivo di seduzione per le donne che incontrava. Ma nel momento stesso che li attirava a sé, essi divenivano i modelli dei suoi innumerevoli ritratti, e che costituiranno per lui una vera e propria drammatica galleria dell’anima.
Si aggiunga poi alla sua precoce scomparsa per malattia (a soli trentasei anni), quella della sua
giovanissima compagna ventiduenne, Jeanne Hébouterne, che troncò la sua vita il giorno seguente la morte di lui, mentre era in attesa del secondo figlio, al nono mese di gravidanza, dopo soli tre anni dalla loro felice unione. Storia toccante, dalla quale fu tratto anche un bellissimo film, nel 1958, Montparnasse 19, interpretato magistralmente da due grandi attori francesi, Gérard Philipe ed Anouk Aimée.
Nei quattordici anni che Modigliani trascorse a Parigi, dal 1906 al 1920, si racchiude tutta la sua attività pittorica2 (con una parentesi dedicata alla scultura); si tratta di quasi tutti i ritratti (salvo pochi paesaggi, tre o quattro, dipinti a Cagnes, nel sud della Francia), immediatamente riconoscibili, anche da chi non è troppo esperto di pittura moderna. Dunque Modigliani in pochi anni è divenuto un “classico”. Vediamo perché.
Intanto la formazione culturale del giovane Modigliani non poteva non risentire del clima estetizzante e dannunziano degli inizi del secolo, che gli faceva esprimere ancora diciassettenne, pensieri molto alati scritti in alcune lettere, nel 1901 all’amico pittore Oscar Ghiglia: “Abbi il culto sacro (io lo dico per te … e per me), per tutto ciò che può esaltare ed eccitare la tua intelligenza al suo massimo potere creatore […] per affermarsi sempre e abbattere tutto quello che è di vecchio e di putrido restato…”3.
Alla base quindi della sua passione artistica, vi è un forte desiderio di mutamento, un’intima necessità per superare quanto sino ad allora aveva appreso scolasticamente nello studio del pittore postmacchiaiolo Guglielmo Micheli, a suo volta allievo di Giovanni Fattori. Ma Modigliani, nelle lettere inviate al Ghiglia, mostra già una vera e propria febbrile ansia di ricerca: “L’efficacia e la necessità dello stile si presenta appunto in questo, che oltre ad essere l’unico vocabolario atto ad estrinsecare un’idea, la distacca dall’individuo che l’ha prodotta, lascia via aperta a ciò che non si può e non si deve dire”4.
Queste riflessioni giovanili dell’artista livornese preludono alla sua maturità che avverrà più tardi a Parigi nel clima delle avanguardie; tuttavia trovano la loro fermentazione nel suo peregrinare, per motivi di salute (il tifo gli aveva procurato lesioni polmonari che saranno per lui fatali), nel sud dell’Italia, nel clima caldo di Napoli, Capri, Amalfi, per poi risalire verso Roma, Firenze e Venezia, dove si imbeve di cultura classica. Secondo Jeanne Modigliani, la figlia dell’artista che nel 1958 traccia una biografia del padre, edulcorata dagli episodi romanzati narrati dagli stessi amici dell’artista (v. ad es. André Salmon. La vie passionnée de Modigliani, Parigi 1957), non poca deve essere stata l’influenza che egli deve aver subito dallo studio sull’opera dello scultore gotico senese, Tino da Camaino (1280c.-1337), sostenendo quanto già aveva evidenziato lo studioso Enzo Carli nel 19525.
Difatti, scrive la figlia Jeanne: “è a Napoli, visitata prima di Firenze, che […] egli ha potuto meglio apprezzare l’originalità di Tino […].
In Santa Chiara, in San Domenico e in Santa Maria Donnaregina, il giovane Dedo si è trovato di fronte alla soluzione felice e grandiosa di problemi plastici che saranno suoi durante tutta la sua breve attività artistica: l’impostazione obliqua dei volti sui colli cilindrici…”6.
Sempre secondo Jeanne, quindi, si sviluppa precocemente, e in Italia, la sua vocazione di scultore nel 1902, e non a Parigi nel 1908, “come afferma la più gran parte dei critici”7. Modigliani, perciò, assorbe ogni esperienza voracemente e in fretta, tanto da scrivere al Ghiglia: “io sono ricco e fecondo di germi ormai e ho bisogno dell’opera”8.
Ricorderà al riguardo lo scultore Jaques Lipchitz (1891-1973), suo grande amico, (v. Ritratto di Lipchtiz e sua moglie, 1916, Chicago, Art Institut) nel testo che dedica a Modigliani: “Il travaillait avec acharnement, esquissant dessin sur dessin sans s’arrêter pour corriger ou réfléchir. Il si fiait, semblait-il, uniquement à son instinct…un instinct d’une finesse et d’une sensibilité extrême, en vertu peut-être de son héritage italien et de son amour pour les maîtres du début de la Reinassaince ”9.
E deve essere proprio per questo “acharnement”, questo furore creativo ad indurlo a confidare più volte all’amico Lipchitz che egli desiderava “una vita breve ma intensa”10. Il destino, sfortunatamente, lo accontenterà, assecondando il suo comportamento autodistruttivo, per l’indifferenza nella cura dei suoi mali, per l’abuso dell’alcol, la dipendenza dalle droghe che aveva iniziato ad assumere mentre si trovava a Venezia (ci ricorda ancora la figlia Jeanne) per seguire i corsi all’Istituto di Belle Arti. Il clima di Parigi, poi, non farà che esasperare queste sue tendenze, forse anche un po’ esibizioniste, recitando, da vero artista, quella parte irruente della sua personalità, con la quale affascinava amici ed era motivo di seduzione per le donne che incontrava. Ma nel momento stesso che li attirava a sé, essi divenivano i modelli dei suoi innumerevoli ritratti, e che costituiranno per lui una vera e propria drammatica galleria dell’anima.
La pittura come dramma e il travaglio della pittura
Quando Modigliani giunge a Parigi, nel 1906, trova un ambiente artistico abbastanza definito: Cézanne e Matisse sono punti di riferimento autorevoli, Picasso, non ancora famoso, sta ponendosi all’attenzione di mercanti e galleristi e l’anno successivo (1907) dipingerà Le demoiselles d’Avignon, dando inizio alla fase cubista con George Braque e Juan Gris. Poi ci sono i “fauves” (Vlaminck, Derain, Van Dongen) che attirano positivamente e negativamente critici e poeti; c’è anche Severini che tenta (invano) di attrarre Modigliani nell’orbita dei futuristi. Ma da questo ribollente magma artistico, il livornese si tiene a una certa distanza, anche se tutto osserva per trarne qualche spunto di linguaggio, che per lui è ancora in fase di definizione: “Le opere eseguite da Modigliani tra il suo arrivo a Parigi e il ritorno a Livorno, nel 1909, che precederà il definitivo trasferimento in Francia – ha scritto Claude Roy – ci danno la sensazione di osservare un artista che cerca di impostare la sua voce, cambia registro, non è mai soddisfatto del tono, torna a prendere vigore, poi di nuovo va per tentativi.”
Continua Roy: ”sin da questo periodo appare un elemento fondamentale dell’arte di Modigliani che dovrà restare come una sua costante […] non concepisce altro rapporto umano se non quello in cui l’artista si pone di fronte al suo modello, né concepisce altro problema compositivo se non quello dell’essere umano solo di fronte allo spettatore”.11 E’ dunque in questo rapporto diretto artista-modello, senza mediazione di sorta, senza allusione ad ambienti caratterizzati, senza oggetti che riferiscono la personalità del ritrattato, che si snoda la quantità, apparentemente monotona, dei personaggi effigiati da Modigliani. In quei volti, in quelle orbite vuote e piene al tempo stesso, nelle deformazioni dettate dallo stile, l’artista cerca e trova la loro vita interiore, scruta i loro desideri, adombra la loro malinconia, il piglio del carattere, la sensualità, il gusto e la bellezza. Modigliani ha familiarità con il soggetto da dipingere, e se non ce l’ha, la cerca, la stabilisce anche con modelli occasionali che sceglie nelle strade e nei caffè parigini. E’ una peculiarità, questa, messa ben a fuoco dallo scrittore Jlià Ehrenburg, affermando che “Modigliani non era un gelido osservatore; non guardava gli uomini standosene in disparte, viveva insieme a loro. Questi son ritratti di uomini che hanno amato, languito, sofferto; […] Il suo destino era strettamente legato a quello altrui…”. Addirittura arriva ancora a sostenere Ehrenburg: “Non possono forse i pensieri, i sentimenti, le passioni modificare le proporzioni?”12 E allora, se è così, potranno apparirci più chiare le estenuate ricerche di stile che Modigliani opera sui volti e sulla figura umana, tesa, verticale, fortemente allungata e chiusa nella linea sinuosa che l’avvolge, modellando forme e colori.
Dunque la laboriosa ricerca di Modigliani si svolge attorno alla “funzione costruttiva della linea”, come scrisse il Venturi nel 193013, una linea, come è noto di ascendenza toscana, mutuata dai senesi Simone Martini e i Lorenzetti, dai fiorentini Lippi e Botticelli, ma anche secondo valori compositivi dedotti dalla lezione di Cézanne, che l’artista ammirava moltissimo e dal quale trae “l’idea di una costruzione per masse cromatiche” (Ponente, 1959)14; a ciò si aggiunga l’interesse per la scultura negra (fonte comune per le avanguardie parigine di quegli anni: per primo Matisse, poi Picasso ed altri) che Modigliani assimila per esprimere il proprio linearismo allungato, i triangolarismi dei lineamenti spigolosi, dai quali egli trae una sorta di suo personale espressionismo. Ma le fonti non finiscono qui.
Certamente egli guardò al cubismo, ebbe consuetudine con Picasso (ma non autentica amicizia); del maestro spagnolo ha lasciato un bellissimo ritratto Pablo Picasso, 1915, con le lettere del nome del pittore dipinte quasi a formare un’aureola intorno alla testa, e più in basso la scritta SAVOIR (alludendo forse alla frase di Courbet: “savoir pour pouvoir”, che la critica precedente non ha mai evidenziato). Nello stesso anno, il 1915, ritrae altri amici artisti: gli scultori Brancusi, Laurens, Inderbaum, lo scrittore Radiguet, la poetessa inglese Beatrice Hastings (sua convivente per due anni); gli amati pittori ebrei polacchi Chaïm Soutine e Moïse Kisling (si ricordi che Modigliani apparteneva a famiglia italiana di ebrei e ne era fiero ed orgoglioso); e poi il famoso ritratto di Paul Guillaume, 1915, il suo primo gallerista, e ancora di Juan Gris, altro protagonista del cubismo. Del 1916, sono da ricordare i ritratti di Max Jacob, Jean Cocteau, Leon Zborowski e il primo di sua moglie Hanka (Anna), del nostro La Signora dal collaretto (o dal bavaretto, secondo tutta la precedente letteratura). Stilemi cubisti, quindi, sono senz’altro da ravvisare nella composizione di questi volti; eppure la negano nello stesso tempo, poiché Modigliani predilige la forma chiusa (perciò classica) che è esattamente l’opposto della ricerca cubista. Il cubismo fu per lui utile come “tirocinio formale”, “dislocamento asimmetrico di piani” (Bucarelli, 1959)15. Secondo Roberto Tassi (1981), egli cercò di conciliare la forma italiana e lo spirito francese negli “anni in cui la novità dell’arte stava proprio nell’abbandono e nella frantumazione della figura umana”16.
Calvesi (1983) vede in lui “purezza di sintesi e capacità di caratterizzazione espressiva”17. Ma il dramma spirituale della pittura di Modigliani mi pare l’abbia definito con terribile acume Alberto Savinio: “Amedeo Modigliani fu il capro espiatorio di tutti i peccati di vanità. Uomini e cose gli apparivano sub specie doloris. Ebreo e italiano – antifariseo per eccellenza – egli seguì quello che è destino di tutti gli ebrei «buoni», cioè ripetere il dramma di Cristo: cristianizzarsi. La sua pittura e i suoi disegni, altro non sono se non il segno di un cristianesimo lineare”18.
Quando Modigliani giunge a Parigi, nel 1906, trova un ambiente artistico abbastanza definito: Cézanne e Matisse sono punti di riferimento autorevoli, Picasso, non ancora famoso, sta ponendosi all’attenzione di mercanti e galleristi e l’anno successivo (1907) dipingerà Le demoiselles d’Avignon, dando inizio alla fase cubista con George Braque e Juan Gris. Poi ci sono i “fauves” (Vlaminck, Derain, Van Dongen) che attirano positivamente e negativamente critici e poeti; c’è anche Severini che tenta (invano) di attrarre Modigliani nell’orbita dei futuristi. Ma da questo ribollente magma artistico, il livornese si tiene a una certa distanza, anche se tutto osserva per trarne qualche spunto di linguaggio, che per lui è ancora in fase di definizione: “Le opere eseguite da Modigliani tra il suo arrivo a Parigi e il ritorno a Livorno, nel 1909, che precederà il definitivo trasferimento in Francia – ha scritto Claude Roy – ci danno la sensazione di osservare un artista che cerca di impostare la sua voce, cambia registro, non è mai soddisfatto del tono, torna a prendere vigore, poi di nuovo va per tentativi.”
Continua Roy: ”sin da questo periodo appare un elemento fondamentale dell’arte di Modigliani che dovrà restare come una sua costante […] non concepisce altro rapporto umano se non quello in cui l’artista si pone di fronte al suo modello, né concepisce altro problema compositivo se non quello dell’essere umano solo di fronte allo spettatore”.11 E’ dunque in questo rapporto diretto artista-modello, senza mediazione di sorta, senza allusione ad ambienti caratterizzati, senza oggetti che riferiscono la personalità del ritrattato, che si snoda la quantità, apparentemente monotona, dei personaggi effigiati da Modigliani. In quei volti, in quelle orbite vuote e piene al tempo stesso, nelle deformazioni dettate dallo stile, l’artista cerca e trova la loro vita interiore, scruta i loro desideri, adombra la loro malinconia, il piglio del carattere, la sensualità, il gusto e la bellezza. Modigliani ha familiarità con il soggetto da dipingere, e se non ce l’ha, la cerca, la stabilisce anche con modelli occasionali che sceglie nelle strade e nei caffè parigini. E’ una peculiarità, questa, messa ben a fuoco dallo scrittore Jlià Ehrenburg, affermando che “Modigliani non era un gelido osservatore; non guardava gli uomini standosene in disparte, viveva insieme a loro. Questi son ritratti di uomini che hanno amato, languito, sofferto; […] Il suo destino era strettamente legato a quello altrui…”. Addirittura arriva ancora a sostenere Ehrenburg: “Non possono forse i pensieri, i sentimenti, le passioni modificare le proporzioni?”12 E allora, se è così, potranno apparirci più chiare le estenuate ricerche di stile che Modigliani opera sui volti e sulla figura umana, tesa, verticale, fortemente allungata e chiusa nella linea sinuosa che l’avvolge, modellando forme e colori.
Dunque la laboriosa ricerca di Modigliani si svolge attorno alla “funzione costruttiva della linea”, come scrisse il Venturi nel 193013, una linea, come è noto di ascendenza toscana, mutuata dai senesi Simone Martini e i Lorenzetti, dai fiorentini Lippi e Botticelli, ma anche secondo valori compositivi dedotti dalla lezione di Cézanne, che l’artista ammirava moltissimo e dal quale trae “l’idea di una costruzione per masse cromatiche” (Ponente, 1959)14; a ciò si aggiunga l’interesse per la scultura negra (fonte comune per le avanguardie parigine di quegli anni: per primo Matisse, poi Picasso ed altri) che Modigliani assimila per esprimere il proprio linearismo allungato, i triangolarismi dei lineamenti spigolosi, dai quali egli trae una sorta di suo personale espressionismo. Ma le fonti non finiscono qui.
Certamente egli guardò al cubismo, ebbe consuetudine con Picasso (ma non autentica amicizia); del maestro spagnolo ha lasciato un bellissimo ritratto Pablo Picasso, 1915, con le lettere del nome del pittore dipinte quasi a formare un’aureola intorno alla testa, e più in basso la scritta SAVOIR (alludendo forse alla frase di Courbet: “savoir pour pouvoir”, che la critica precedente non ha mai evidenziato). Nello stesso anno, il 1915, ritrae altri amici artisti: gli scultori Brancusi, Laurens, Inderbaum, lo scrittore Radiguet, la poetessa inglese Beatrice Hastings (sua convivente per due anni); gli amati pittori ebrei polacchi Chaïm Soutine e Moïse Kisling (si ricordi che Modigliani apparteneva a famiglia italiana di ebrei e ne era fiero ed orgoglioso); e poi il famoso ritratto di Paul Guillaume, 1915, il suo primo gallerista, e ancora di Juan Gris, altro protagonista del cubismo. Del 1916, sono da ricordare i ritratti di Max Jacob, Jean Cocteau, Leon Zborowski e il primo di sua moglie Hanka (Anna), del nostro La Signora dal collaretto (o dal bavaretto, secondo tutta la precedente letteratura). Stilemi cubisti, quindi, sono senz’altro da ravvisare nella composizione di questi volti; eppure la negano nello stesso tempo, poiché Modigliani predilige la forma chiusa (perciò classica) che è esattamente l’opposto della ricerca cubista. Il cubismo fu per lui utile come “tirocinio formale”, “dislocamento asimmetrico di piani” (Bucarelli, 1959)15. Secondo Roberto Tassi (1981), egli cercò di conciliare la forma italiana e lo spirito francese negli “anni in cui la novità dell’arte stava proprio nell’abbandono e nella frantumazione della figura umana”16.
Calvesi (1983) vede in lui “purezza di sintesi e capacità di caratterizzazione espressiva”17. Ma il dramma spirituale della pittura di Modigliani mi pare l’abbia definito con terribile acume Alberto Savinio: “Amedeo Modigliani fu il capro espiatorio di tutti i peccati di vanità. Uomini e cose gli apparivano sub specie doloris. Ebreo e italiano – antifariseo per eccellenza – egli seguì quello che è destino di tutti gli ebrei «buoni», cioè ripetere il dramma di Cristo: cristianizzarsi. La sua pittura e i suoi disegni, altro non sono se non il segno di un cristianesimo lineare”18.
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