Felice Levini, Corpi semplici II, Auditorium Parco della Musica, Roma, prima sala.
Ma nella Storia, perché è di questa perdita che qui si tratta, siamo
subito introdotti. Volendo potremmo muoverci, calpestarla financo, sulla geografia di un ipotetico mappamondo costruito a tessere: ogni luogo una battaglia del Novecento appena trascorso, eppure già trapassato. Qui, dove il percorso inizia, altre sensorialità ci pervadono, attraverso le sonorità di assemblaggi musicali e le voci, provenienti da due giganteschi megafoni, dei discorsi memorabili che hanno puntellato e scandito il Novecento, e sono quelli di Fidel Castro, Martin Luther King, Indira Ghandi, ecc.Eppure, non è a una ritualistica e consolatoria agiografia, o archivio della memoria e della Storia, che l’artista sembra guardare. Piuttosto siamo qui in presenza di un beckettiano Ultimo nastro di Krapp dove il protagonista, la Storia nel nostro caso, riascolta, nella circolarità della ripetizione, un se stesso giovane, quando ancora possedeva la presunzione di orientare i destini ultimi dell’umanità e, quindi, una tensione, una finalità, non importa quanto tragica.
Ed è proprio su quest’ultima categoria ideologica che Felice Levini sposta l’asse della sua riflessione.
Non più sulla tragicità della Storia, ma sulla tragedia irrappresentabile di una rinuncia già consumata: quella di assumere il peso della Storia, ma anche della sua avvenuta dismissione quale orizzonte di senso e di umana gloria.
La seconda stanza cui siamo introdotti, superata la soglia che divide i due ambienti, è uno spazio assolutamente bianco, architettonicamente configurato come un tempio. è la stanza dell’offerta, del dono, ma anche, a ben vedere, della metafora dell’arte: la parola, o l’immagine, che si offrono senza mediazioni linguistiche.
Felice Levini, Corpi semplici II, Auditorium Parco della Musica, Roma, seconda sala.
I calchi di dodici coppie di mani, ciascuna intervallata da una colonna costituita da un tessuto aereo e leggero, si protendono, dalla parete cui sono ancorate, nel gesto dell’offerta.
Il passaggio dal precedente ambiente, luogo della collettività, del proclama e della declamazione, ci consegna al silenzio che si deve alla sacralità, in questo spazio appena amplificato dalla riproduzione di un soffiare del vento.
Qui nulla è identificativo, e la sola forma riconoscibile, quella delle mani, protese nell’ambiguità del gesto di offrire ma anche di ricevere, si ripete similmente per dodici volte. Qui nulla è identificativo perché solo ciò che è impersonale è sacro; sacra non è la persona, ma quanto in un essere umano vi è di impersonale, come ci ricorda la riflessione su questo tema che da Weil passa per Agamben.
Felice Levini, nell’avere organizzato i due spazi (quello dell’individuale e del sacro; e quello del collettivo e del terreno) rigidamente tra loro separati, lascia aperta, a noi osservatori, l’interrogazione se sia più delittuoso pronunciare un “io” o un “noi”.
Il passaggio dal precedente ambiente, luogo della collettività, del proclama e della declamazione, ci consegna al silenzio che si deve alla sacralità, in questo spazio appena amplificato dalla riproduzione di un soffiare del vento.
Qui nulla è identificativo, e la sola forma riconoscibile, quella delle mani, protese nell’ambiguità del gesto di offrire ma anche di ricevere, si ripete similmente per dodici volte. Qui nulla è identificativo perché solo ciò che è impersonale è sacro; sacra non è la persona, ma quanto in un essere umano vi è di impersonale, come ci ricorda la riflessione su questo tema che da Weil passa per Agamben.
Felice Levini, nell’avere organizzato i due spazi (quello dell’individuale e del sacro; e quello del collettivo e del terreno) rigidamente tra loro separati, lascia aperta, a noi osservatori, l’interrogazione se sia più delittuoso pronunciare un “io” o un “noi”.
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